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“La vita va così” di R. Milani. Recensione di M. Montemurro

Parola chiave: identità, memoria Autrice: Mirella MontemurroTitolo: “La vita va così”Dati sul film: regia di Riccardo Milani, Italia, 2025, 118’Genere: commedia Film di apertura alla Festa del Cinema di Roma, “La vita va così” si presenta come una commedia dal tono lieve, ma capace di toccare corde profonde. Il regista – già noto per “Un […]

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Parola chiave: identità, memoria

Autrice: Mirella Montemurro
Titolo: “La vita va così”
Dati sul film: regia di Riccardo Milani, Italia, 2025, 118’
Genere: commedia

Film di apertura alla Festa del Cinema di Roma, “La vita va così” si presenta come una commedia dal tono lieve, ma capace di toccare corde profonde. Il regista – già noto per “Un mondo a parte”, opera in cui metteva in luce le fragilità e la bellezza delle comunità locali – torna a parlare di territori da salvaguardare, di legami familiari e di quella tensione costante tra modernità e tradizione che attraversa l’animo contemporaneo. Ambientato nel sud della Sardegna, a Beleza Manna, luogo immaginario ma intriso di verità, il film si nutre di paesaggi mozzafiato e silenzi antichi, dove il mare cristallino riflette le contraddizioni di chi vi abita. Al centro della vicenda troviamo Elfio, interpretato con una forza istintiva da Giuseppe Ignazio Loi, pastore sardo che incarna la purezza e la durezza di una terra che non si lascia addomesticare. C’è un momento, nel film “La vita va così”, in cui il mare di Beleza Manna sembra respirare con il protagonista. Le onde si muovono lente, come un pensiero che non riesce a decidersi se restare o andare. È lì che il regista ci invita a entrare in un paesaggio dell’anima: la Sardegna del sud, tra pastori, silenzi e memorie. Elfio, interpretato con un’autenticità quasi arcaica da Giuseppe Ignazio Loi, è un uomo che abita il confine tra il passato e il futuro. Pastore, figlio di una terra che parla con il vento e con la pietra, si trova improvvisamente di fronte al bivio che ogni essere umano incontra almeno una volta nella vita: seguire la voce delle radici o cedere al richiamo del progresso. La trama, ispirata a una storia vera, si muove come una parabola morale: un’offerta economica che promette sviluppo, modernità, successo; e, dall’altra parte, la fedeltà a un paesaggio, a una cultura, a un padre. Elfio rifiuta, consapevole che non tutti i “progressi” sono sinonimi di crescita. In questo gesto si condensa una crisi identitaria che appartiene a molti: l’angoscia di perdere se stessi nella corsa verso un futuro che rischia di cancellare la memoria. “La vita va così” è un film che parla del narcisismo del progresso e della paura di dissolversi, di perdersi nel nuovo per non sentire il vuoto del sé. Elfio, con la sua ostinazione, diventa simbolo del soggetto che resiste alla frammentazione, che difende il suo Io territoriale contro la globalizzazione dell’anima. Il denaro, in questo senso, rappresenta l’Ideale dell’Io del mondo moderno: una voce seducente che promette onnipotenza e invece lascia orfani. Nel suo rifiuto, Elfio non si limita a dire “no” a un contratto, piuttosto dice “sì” alla propria identità. È il gesto analitico per eccellenza, il momento in cui l’individuo si riconcilia con il proprio desiderio.

La Sardegna, con i suoi silenzi immensi e la sua luce ferma, diventa il controcampo visivo di questa ricerca. Elfio si fa portavoce di un popolo che non vuole smettere di essere se stesso. Il film è una commedia malinconica, attraversata da lampi di ironia, come se la leggerezza fosse l’unico modo per toccare ciò che è profondamente serio. E quando nel finale l’autista pronuncia quella frase – “ci sono dei limiti che bisogna rispettare” – comprendiamo che non si parla solo di territorio.  Ci lascia la speranza che la fedeltà a se stessi non sia un residuo del passato, ma una forma di saggezza da riscoprire. In un mondo che corre, Elfio resta. E nel suo restare, ci insegna a sperare.

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