Il discorso del Re – 2
Tom Hooper, Regno Unito/Australia, 2010, 111 min.
(titolo originale: The King'sSpeech)
{youtube}S3vXVZundqQ{/youtube}
Commento di Fiorella Petrì
Vincitore di quattro premi Oscar Il discorso del re di Tom Hooper è un film che può risuonare particolarmente interessante per chi si interessa di psicoanalisi. Lo definirei un film sul potere paralizzante dell'ansia, ma anche sul potere terapeutico dell'ascolto e della parola.
Un uomo tormentato da un'immagine inadeguata di sé, senza speranza, schiacciato dal peso del ruolo sociale che potrebbe essere chiamato a svolgere, questo è il Principe Alberto, Duca di York, futuro re d'Inghilterra Giorgio VI.
Bertie, com'è chiamato in famiglia (interpretato da Colin Firth, premiato come miglior attore con il Golden Globe 2010 e con l'Oscar 2011) è un uomo di mezza età dall'animo semplice, un marito tenero, un padre affettuoso e creativo che ci sorprende quando, inventando fiabe, intrattiene le due figlie.
Bertie è oppresso, sin da piccolo, da una severa balbuzie ed è terrorizzato dall'idea di dover assumere il potere. L'ansia lo paralizza davanti ai microfoni dell'ultima conquista tecnologica: la Radio. E' grazie alle trasmissioni radiofoniche, infatti, che la sua voce potrebbe raggiungere chiunque, anche nelle zone più remote del Regno e svelare a tutti la sua fragilità, la sua estrema insicurezza. Di contro, siamo negli anni che precedono l'invasione nazista e Hitler si mostra al mondo, nelle immagini riportate dai cinegiornali -altra magia della tecnica - come simbolo dell'uomo forte e potente che con i suoi discorsi riesce a infuocare gli animi di masse fanatiche e acritiche. E' in questo momento storico, in cui si respira nell'aria la minaccia di un evento catastrofico, che Bertie, spinto dalla moglie, che amorevolmente lo sostiene e cerca di aiutarlo, si rivolge a un eccentrico logopedista australiano, Lionel Logue. E' un incontro speciale quello che avviene tra i due. Da una parte c'è Sua Altezza, ingessato in una corazza difensiva per evitare che nessuno si avvicini al suo dolorante mondo interno, dall'altro c'è Lionel, persona diretta e particolarmente empatica, che con la frase: " mio il castello, mie le regole" cerca di stabilire, sin dal primo momento, un rapporto spogliato da vuote formalità. Bertie, inizialmente, è diffidente e ricorda quei pazienti normotici, o con aspetti di falso sé, che sentiamo molto difficili da raggiungere perché si difendono strenuamente dall'entrare in contatto con l'altro per non svelare aspetti più autentici di sé. Bertie acquista un po' di fiducia nel metodo terapeutico che gli è proposto solo quando, grazie a uno stratagemma, Lionel registra la sua voce sovrastata da un brano musicale, il Duca si rende conto, così, che solo distraendosi da se stesso, mettendo a tacere gli aspetti di autocritica che lo angosciano, può riuscire a parlare correttamente. Intravediamo in Bertie un Super-io arcaico che lo tormenta in maniera sadica di cui scopriremo l'origine nel corso della storia.
Bertie è continuamente spiazzato dai modi di Lionel e dalle sue strategie per aiutarlo ad allentare l'ansia: l'attenzione del logopedista va al corpo con degli esercizi che in un clima giocoso finiscono per essere regressivi e liberatori. Vediamo, così, l'impacciato Duca fare smorfie imitando Lionel o rotolarsi per terra, cantare e gridare improperi e parolacce, un modo questo per fare finalmente uscire quella voce che fino a allora era stata soffocata. Siamo inteneriti dallo scorgere il bambino negato nel momento in cui gli viene concesso di giocare con un modellino di aereo.
Sappiamo quanto la balbuzie sia strettamente connessa al controllo della rabbia; in Bertie si tratta di una rabbia antica maturata in un ambiente familiare anaffettivo, disattento, dove i rapporti erano soffocati dall'etichetta e dai cerimoniali di corte: "non siamo una famiglia, siamo una ditta" dirà amaramente il Principe rivolto al padre, Re Giorgio V.
In un momento d'intensa intimità il Duca svela a Lionel il suo dramma: da piccolo era stato affidato, insieme al fratello primogenito alle cure di una bambinaia che spudoratamente preferiva il fratello David a lui. Questa donna, descritta come un oggetto materno persecutorio e abbandonico, sadicamente lo privava del cibo/amore di cui aveva bisogno per crescere armonicamente. E' l'infanzia di un bambino traumatizzato - forse con Khan lo potremmo definire vittima di traumi cumulativi - schiacciato da una parte da un padre rigido e autoritario, e dall'altra vessato, deriso dal fratello maggiore, ammirato per la sua disinvoltura e l'apparente sicurezza in se stesso. Dico apparente sicurezza perché anche quest'ultimo rivelerà la sua debolezza quando, incoronato re d'Inghilterra come Edoardo VIII, sotto il peso dei doveri e delle responsabilità regali abdicherà in favore del fratello per sentirsi libero di sposare una donna più volte divorziata. Possiamo immaginare il piccolo principe Alberto trascorrere la sua infanzia in solitudine: senza nessuno attento al suo disagio, nessuno che contenesse il suo dolore. La sua infanzia fu ulteriormente segnata dalla morte del fratello tredicenne, epilettico, Johnny. Supponiamo ancora con Lionel che il suo senso d'inadeguatezza sia stato fomentato dal suo essere mancino e dall'essere stato sottoposto a una rigida quanto innaturale correzione. E' evidente che Bertie consideri con vergogna i suoi vissuti emotivi, egli è stato educato a inibire ogni forma di emozione, di protesta, e costretto a essere un Principe senza voce. Lionel, come una figura paterna affettuosa e autorevole, sarà il primo ad ascoltare e comprendere il suo dolore e la sua rabbia, sarà anche il primo oggetto della sua collera, ma anche il primo a tollerare l'aggressività senza rispondere con rappresaglie o punizioni. Lionel sopravvive agli attacchi, come direbbe Winnicott, e può, umilmente, ammettere i suoi errori. Il regista Hooper con sensibilità e capacità introspettive ci fa assistere all'evoluzione del percorso di cura diBertie: dalla sfiducia nelle proprie capacità, alla conquista della fiducia in se stesso. Mi sembra importante notare che a questa conquista contribuirà anche il sapere che il padre, in fin di vita, aveva espresso finalmente un giudizio positivo su di lui riconoscendone il valore e considerandolo più adatto del fratello a succedergli al trono.
Il principe Alberto, incoronato Re, ritroverà la voce per parlare al mondo in una triste circostanza: l'entrata in guerra del Regno Unito per difendere l'Europa dalla furia hitleriana. E' un discorso appassionato, dove emergono la forza, il coraggio e tutte le qualità umane di questo Re, preoccupato e vicino affettivamente al suo popolo. Sarà Lionel, anche in questa circostanza, ad accompagnarlo e a infondergli fiducia: come un direttore di orchestra gli suggerirà a gesti il ritmo da dare alla sua voce.
Ancora due parole sulla attenta scenografia d'impianto teatrale, i costumi e la colonna sonora che hanno il potere di farci entrare in punta di piedi nell'atmosfera dell'Inghilterra degli anni '30. Splendida la fotografia che indugia soprattutto sugli interni e gli espressivi primi piani. Efficaci, secondo me, anche le poche scene in esterno, dove tutto e tutti sono immersi nella nebbia, mi sembra che il Regista abbia voluto sottolineare in questo modo come difese e resistenze fanno permanere l'uomo nella nebbia dell'inconsapevolezza, facendogli perdere di vista le sue risorse e potenzialità.
2 Marzo 2011