Cultura e Società

Un’anima divisa in due

Silvio Soldini,1993, Italia, 122 min.


Commento di Gabriella Giustino

 

In una Milano grigia di circa 15 anni fa, Pietro, un avvenente trentenne, è prigioniero di regole sociali rigide ed afflitto da un senso d'inutilità e di frustrazione; lavora presso un grande magazzino milanese ed il suo compito è quello d'individuare chi ruba la merce, fermarlo e nel caso denunciarlo. Il regista, con grande maestria, ci comunica questa Milano grigia, centrata sui doveri, sulle abitudini quotidiane dove sembra non esserci spazio per la creatività individuale. Pietro, ogni giorno, viaggia in un metrò triste e monotono, dove non c'è comunicazione e non ci si guarda neanche in volto: la società milanese ci appare impregnata di piatto conformismo.
Un conformismo e perbenismo che non dà spazio al "diverso" alla trasgressione anche minima. Questo tessuto sociale sembra egoisticamente non voler vedere il disagio che turberebbe un abitudinaria ma rassicurante noia del quotidiano sempre uguale.
Il protagonista è solo, la moglie lo ha lasciato per un altro.
Ha un figlio che ama, ma riesce ad essere felice soltanto quando condivide con lui storie immaginarie: l'andare al mare corrisponde paradossalmente a chiudersi nella sua vecchia auto dimessa e sognare "facendo finta" insieme al piccolo Tommaso.
Pietro appare annientato nel corpo e nella mente da questo vuoto esistenziale che lo imprigiona in una solitudine profonda. La frustrazione, che gli deriva da una vita infelice, gli procura una rabbia che talora agisce disperatamente nel suo lavoro, odiando le signore ricche che rubano compulsivamente e che gli ricordano la sconcertante superficialità della sua ex compagna, madre di suo figlio. Il protagonista aderisce a questo conformismo come se si sentisse senza risorse alternative, un uomo senza qualità.
Egli appiattisce tutto dentro di sè ed è proprio il suo lavoro che lo rende garante di un ordine sociale a cui si sottomette non senza ambivalenza. Infatti, s'intravede in lui un versante immaginativo che non trova sbocco, una rabbia vitale repressa che esplode poi negli agiti o nel corpo.
L'aggressività normale e legittima è confusa con la trasgressione distruttiva e Pietro sembra cercare di reprimerla, temendola molto oppure talora agendola esplosivamente quando non la controlla più. Ma una parte scissa del paziente è affascinata da questa trasgressione, anche se lui non ne è consapevole. Questo spiega la forte attrattiva del protagonista verso Pabe, una giovane zingara che gli appare bella, senza regole e libera.
Il regista intuisce lucidamente un tema che diventerà sempre più urgente nella società globale: quello dell'integrazione.
Ma di quale integrazione stiamo parlando? Certo, di quella sociale, ma anche di quella interna tra diverse parti del Sé che non si armonizzano tra loro creando situazioni di grave infelicità. Torniamo quindi al tema dell'identità personale, del potersi consentire la libertà di essere se stessi pur non violando le regole ma permettendosi un'originalità di pensiero e di comportamento che siano tollerabili e che ci facciano sentire abbastanza liberi.
Pabe solo apparentemente non ha regole; le sue, quelle dei Rom, sono ancora più rigide e terribili di quelle della "Milano da bere".
Eppure nel film accade qualcosa di sorprendente. Pietro avvicina la zingara, la rapisce, s'innamora di lei e la sposa. Da questo momento in avanti assistiamo a un reciproco encomiabile sforzo di raggiungersi trasformandosi l'uno nell'altra.
L'amore è l'artefice di questo tentativo disperato e Sabino, il nonno di Tommaso, anticonformista saggio, diventa il garante di quest'improbabile integrazione di coppia, che comporta la fusione di due identità in una. In realtà questa soluzione rende infelici entrambi, si rivela un sogno idilliaco bellissimo ma impossibile e, alla morte di Sabino, questo emergerà in tutta la sua complessità. Noi siamo la nostra storia e, come dimostra il finale del film che vede una Pabe perplessa sul limite del ritorno (forse impossibile) in un campo Rom, non possiamo mai dimenticarlo. Ecco perché noi non possiamo rinunciare alla nostra identità ma dobbiamo partire da noi stessi e dal nostro passato per poter cambiare , sentirci più autentici ed esprimere legittimamente la nostra originalità . Non è facile: la "dittatura" del conformismo è una sirena che rassicura, attrae molti e appiattisce la potenzialità che è insita in ognuno di noi. Vorrei concludere con una citazione che riguarda i padri della psicoanalisi, per esprimere quanto questo problema abbia radici antiche e profonde.
Patrick Miller scrive in un recente lavoro: "Agli inizi del mese di Settembre 1932, mentre stava andando al Congresso di Wiesbaden, Ferenczi si fermò a Vienna per incontrarsi con Freud. Egli gli lesse il lavoro che stava per presentare al Congresso: "La confusione delle lingue tra adulti e bambini".
La reazione di Freud fu estremamente critica tanto che, in conseguenza di ciò, chiese a Ferenczi di astenersi dal pubblicare alcunché per un anno.
In una lettera dai toni molto aspri, datata 2 Ottobre 1932, Freud scrisse a Ferenczi:
"Non penso che lei si ravvederà, come io ho fatto nella generazione precedente... Negli ultimi due anni lei si sta sistematicamente allontanando da me...Penso di poterle oggettivamente indicare gli errori teorici della sua concettualizzazione, ma a cosa servirebbe? Sono convinto che lei non sia accessibile ad alcun tipo di revisione".
Lo stesso giorno in cui Freud scrisse la lettera, Ferenczi annotò nel suo Diario Clinico, 2 ottobre del 1932: "Nel mio caso la crisi ematica che ho subito (un'anemia di cui morirà sette mesi più tardi), si è verificata proprio nel momento in cui avevo capito che non solo non posso più giovarmi della protezione di un qualche "potere superiore", ma che, al contrario, mi sento calpestato da tale potere indifferente e ho deciso di prendere la mia strada e non la sua (...) Nello stesso modo in cui ora dovrei ricostituire i miei globuli rossi, dovrei forse anche (se posso) creare una nuova base per la mia personalità e lasciare, in quanto falsa ed inaffidabile, quella che è stata mia fino ad oggi? Ho adesso la possibilità di scegliere tra morire o "cambiare" me stesso, e questo all'età di 59 anni?"
La scelta tra morire o cambiare me stesso: nessun altro potrebbe esprimere in modo più chiaro e drastico il problema radicale con cui ci si confronta quando si affronta la questione del cambiamento psichico.
Fermo restando che Freud aveva esigenze storicamente gravi per pretendere una tale fedeltà al suo modello e che forse per lui era l'unica strada per permettere alla psicoanalisi di sopravvivere nel clima di quei tempi, i Maestri c'insegnano quanto possa essere "mortificante" reprimere le proprie potenzialità creative per sottomettersi conformisticamente a un modello che può uccidere la vitalità.
Comunque Ferenczi non si è piegato e, nonostante le sofferenze e le criticabili incongruenze tecniche, ci ha regalato pagine indimenticabili e concetti tuttora attualissimi sul trauma e molto altro.

Febbraio 2011

Recensioni Cinema